LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale contro Ramello Eraldo, nato a Bruscengo l'8 novembre 1930, assolto in primo grado con sentenza in data 20 gennaio 2003 pronunciata dal tribunale di Torino, Sez. dist. Chiaesso, sentenza contro la quale il p.m. ha proposto appello. Sulla questione di legittimita' costituzionale sollevata dal procuratore generale, sentite le parti, la Corte osserva. 1. - Viene proposta questione di legittimita' costituzionale: dell'art. 593, comma 2, c.p.p., come sostituito dall'art. l, legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui non consente al pubblico ministero di appellare contro le sentenze di proscioglimento, al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, c.p.p. e sempre che la nuova prova sia decisiva ed il giudice in via preliminare disponga la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale; e dell'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui stabilisce che l'appello contro un sentenza di proscioglimento proposto dal pubblico ministero prima dell'entrata in vigore della legge medesima viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile. 2. - La questione e' rilevante nel presente processo, poiche' questa Corte di appello dovrebbe dichiarare inammissibile l'appello proposto dal p.m., in applicazione della disposizione transitoria dell'art. l0, comma 2, legge 20 febbraio 2006, n. 46, trattandosi di appello proposto prima dell'entrata in vigore di detta legge. 3. - La questione non e' manifestamente infondata, in quanto: la Costituzione stabilisce, al primo periodo del secondo comma dell'art. 111, che il processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo ed imparziale. La condizione di parita' riconosciuta alle parti non puo' intendersi limitata alla fase anteriore alla pronuncia del giudice giacche', sia per comune nozione che per quanto stabilito nel primo comma del citato art. 111, il termine «processo» indica l'intero iter attraverso il quale si attua la giurisdizione, fino alla pronuncia definitiva. Poiche' nel processo agiscono parti portatrici di interessi contrapposti, la Costituzione disciplina dunque come la legge deve regolamentare l'attribuzione alle parti delle facolta' per far valere ed eventualmente farsi vedere accogliere le loro pretese. Nel processo penale il p.m. esercita la pretesa punitiva che discende direttamente dal principio costituzionale (art. 112) dell'obbligatorieta' dell'azione penale. L'imputato resiste a tale pretesa, ed esercita il diritto, anch'esso costituzionalmente garantito (art. 24, 25, 27), di veder dichiarata la propria innocenza «o, se colpevole, di vedersi irrogata una sanzione equa conforme al principio di cui all'art. 27.3». L'art. 593 c.p.p., come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nel primo comma prevede che il p.m. e l'imputato possono appellare contro le sentenze di condanna, mentre nel secondo comma consente a dette parti di appellare contro le sentenze di proscioglimento soltanto nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, c.p.p. ed a condizione che la nuova prova sia decisiva - stabilendo altresi' che il giudice, se in via preliminare non dispone la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, dichiara inammissibile l'appello. E per gli appelli proposti prima dell'entrata in vigore della legge n. 46/2006, l'art. 10, comma 2 della stessa legge neppure prevede la suddetta deroga alla inammissibilita' dell'appello contro la sentenza di proscioglimento. Benche' le citate norme riguardino sia il p.m. che l'imputato, cio' solo «in apparenza» rispetta il principio costituzionale di parita' delle parti, essendo del tutto evidente che, in relazione alle loro contrapposte pretese, la sentenza di proscioglimento ha una portata assolutamente diversa, poiche' stabilisce la soccombenza di quella del primo e la vittoria di quella del secondo. Per altro verso, di fronte ad una sentenza di condanna, che respinge la pretesa dell'imputato di veder dichiarata la propria innocenza (e, almeno sotto l'aspetto essenziale, accoglie la pretesa del p.m.), l'imputato conserva il diritto di appellare - fatta salva la gia' preesistente eccezione di cui all'ultimo comma dell'art. 593 c.p.p. -, senza alcuna limitazione, ed in specie senza la rilevantissima condizione di dedurre ex art. 603, comma 2 c.p.p. una nuova prova decisiva. Tenuto conto delle contrapposte pretese delle parti, e pur considerata la diversita' delle funzioni dalle stesse svolte nel processo, non si ravvisa razionalita' e coerenza, ne' attuazione del principio costituzionale di parita' (effettiva, e non soltanto apparente), tra il riconoscimento all'imputato condannato del diritto incondizionato di appellare e la preclusione per l'accusa di servirsi dello stesso rimedio in caso di proscioglimento, se non alla strettissima condizione sopra indicata. Pertanto, deve ritenersi - o, quantomeno, non e' manifestamente infondato ritenere - che le norme in questione violano il principio sancito dall'art. 111, secondo comma, della Costituzione. Allo stesso modo, non pare infondato ravvisare un contrasto anche col parametro costituzionale della «ragionevolezza», quale si ricava dall'art. 3 della Costituzione. Invero, nessun criterio di ragione ne' alcuna peculiare finalita' riconosciuta dal legislatore appaiono giustificare una disciplina che squilibra fortemente i rapporti tra accusa e difesa. E la irragionevolezza della introdotta riforma emerge anche sotto un altro profilo. Invero, posto che, nel gia' ricordato «apparente» rispetto del principio di parita', il p.m. e l'imputato sono accomunati nel diritto di appellare contro le sentenze di condanna, appare privo di razionale giustificazione riconoscere al p.m. il potere di appellare di fronte ad errori «marginali» della sentenza (di condanna), ed invece negarglielo (salvo la limitata eccezione prevista nel comma 2 del «nuovo» art. 593 c.p.p.) di fronte a ben piu' «sostanziali» errori della sentenza (di proscioglimento). Ne' vale obiettare che altre riforme hanno gia' nel corso del tempo ristretto le facolta' processuali del p.m. rispetto a quelle riconosciute all'imputato e che tali riforme hanno superato il vaglio di costituzionalita'. E' qui il caso di richiamare la formulazione dell'art. 443.3 c.p.p. (che esclude la possibilita' di appello da parte del p.m. della sentenza di condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, anche dopo l'eliminazione del presupposto del consenso del p.m. al rito ex legge n. 479/1999) ritenuta non in contrasto con la norma costituzionale dell'art. 111 dalla Corte cost. con ordinanza n. 421/2001. Ma i motivi che la Corte aveva posto a fondamento della propria pronuncia non appaiono estensibili anche alla riforma attuale; e cio' per piu' ragioni: trattandosi di giudizio abbreviato, la Corte costituzionale ha, in sostanza, ritenuto che la rinuncia da parte dell'imputato ad altro dei principi cardine del giusto processo (il contraddittorio nella raccolta delle prove) giustifica l'asimmetria che l'art. 443.3 c.p.p. produce nel sottrarre al p.m. la facolta' di appellare la sentenza di condanna a seguito di abbreviato; il predetto restringimento delle facolta' di appello per il p.m. ha come presupposto la pronuncia di una sentenza di condanna, che e' pur sempre realizzazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale (restando frustrata soltanto la sua pretesa relativa al trattamento sanzionatorio, pretesa che non e' di rango costituzionale e che dunque puo' ben soccombere innanzi all'esigenza costituzionale di brevita' del processo); sostanzialmente differente e' la situazione di diritto in cui si cala la riforma di cui al legge n. 46/2006, perche', in primo luogo, sottrae al p.m. la possibilita' di appellare (salvo l'ipotesi di cui s'e' detto) contro sentenze di proscioglimento, che costituiscono la negazione della pretesa punitiva da lui impersonata per conto dello Stato; in secondo luogo, la riforma si applica indifferentemente a tutti i tipi di giudizio, sicche' la introdotta «asimmetria» non trova alcuna giustificazione che sia riconnessa a istituti deflattivi in cui rinunce dell'imputato comportino il risultato apprezzabile della definizione piu' sollecita del processo.